Franco D’Andrea è un musicista che non ha bisogno di presentazioni. La sua storia artistica è talmente ricca, intensa, coerente, che enumerare tutte le sue collaborazioni, i suoi incontri, le opere significative non avrebbe senso, se non in una pubblicazione allargata, che prendesse in esame con serietà e precisione questa carriera formidabile nella sua totalità.

D’altra parte, per condensare in pochi tratti e in modo significativo il suo temperamento, la sua originalità, la sua coerenza, ci vorrebbero forse le parole di un poeta. Certo, un poeta che non usasse termini altisonanti e astrusi, ma che parlasse il linguaggio della quotidianità disadorna, ricca di senso, come hanno fatto i nostri migliori poeti. E come fa Franco quando si esprime con il proprio strumento, sempre alla ricerca della poesia più asciutta, scarnificata, ma profondamente vera, scaturita da un linguaggio che sta mirabilmente sospeso tra la quotidianità e il soprannaturale. Un linguaggio radicato nella tradizione della musica afroamericana, a tal punto che spesso non è facile seguirlo fino in fondo nei dettagli delle sue divagazioni ritmiche, dei suoi insistenti riff, delle citazioni, che sono sempre appropriazioni alla ricerca di un’autenticità. Il suo lavoro reclama dunque frequentazione, confidenza, attenzione, disposizione alla scoperta e allo stupore.

Sono gli stessi atteggiamenti che lui stesso rivolge alla musica, in primo luogo a quella degli altri, che pochi sanno ascoltare con tale acume. E naturalmente alla sua, svezzata al contatto con Nunzio Rotondo nella Roma degli anni Sessanta e poi folgorata dall’incontro con Gato Barbieri, che per primo gli fa conoscere le possibilità della creazione libera e dirompente. Lo coinvolge in avventure formidabili, come quella in cui viene registrata la colonna sonora di Ultimo tango a Parigi.

Il periodo sperimentale, scaturito nel lavoro del Modern Art Trio insieme a Franco Tonani e Bruno Tommaso, è stato ingiustamente rimosso, perché troppo in anticipo sui tempi. Ma lo si ritrova, maturato e consapevolmente strutturato, nelle pieghe del lavoro di oggi: nell’audace ricerca del quartetto con Andrea Ayassot, Aldo Mella e Alex Rolle (cui ora è subentrato Zeno De Rossi), nelle esplorazioni di Eleven, nelle poderose riflessioni in solo, dove la sintesi è a tutto campo, e affronta le vette eccelse di Ellington, Tatum, Monk, trovando il punto di intesa con il proprio linguaggio. In tutti questi ultimi lavori si trova una tensione continua e dialettica tra innovazione e tradizione, tra Africa e Occidente. La si trova ancora approfondita e rivitalizzata nei recenti trii: quelli atipici con tromba e trombone (Fabrizio Bosso e Gianluca Petrella), con due contrabbassi (Ares Tavolazzi e Massimo Moriconi) e quello classico con Massimo Manzi e ancora Tavolazzi, che trova un modo geniale di visitare la storia del jazz senza doversi allineare né a Bill Evans, né a Herbie Hancock, né a Bud Powell.

Giuseppe Segala

Discografia

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